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27/10/2009

DISCUSSIONE SUL CONCETTO PSICOANALITICO DI PERSISTENZA

 

Come sapete sono comparsi sul nostro focus 4 contributi del Dott. Coen relativi al concetto psicoanalitico di persistenza in preparazione del Convegno annuale che si è svolto il 24 ottobre u.s. Nel corso del Convegn0 stesso Anne-Marie Sandler ha presentato il materiale di un paziente in terapia, materiale che ci ha permesso di riflettere ulteriormente sull'applicazionme clinica di questo concetto. E' inoltre comparso un primo commento a questi contributi da parte del dott. Carlo Grigioni (Per leggere il commento vai su Archivio Focus). Vi invitiamo pertanto ad inserirvi in questo dialogo con le Vostre osservazioni e domande. Sarà nostra cura dare una risposta o un commento ai Vostri contributi.

 

Allegati:

 

Commenti:

08 - giuseppe tadiello

14/02/2010 - 9:34

Non conoscevo l’importante influenza esercitata dai lavori del neurologo inglese J.H .Jackson sulle teorizzazioni freudiane. Anche nell’ultimo lavoro sul concetto di regressione, il dott. Paolo Coen ci ha nuovamente ricordato la portata del rapporto tra i lavori del medico inglese e le intuizioni di Freud. Leggendo Freud non avevo mai incontrato, così mi sembrava, il suo nome. Nell’ “Indice dei nomi di persona” nel volume 12 delle Opere il nome di Jackson compare, anche se solo quattro volte, con riferimento a dei passi nei volumi 2 e 3 delle Opere. Si trova per lo più in note a piè di pagina. Alcuni giorni fa mi è capitato di consultare un testo “La fatica di essere se stessi (depressione e società)”, di Alain Ehrenberg (Giulio Einaudi, 1999). Il libro analizza il concetto di depressione come si è andato definendo in ambito psichiatrico nel XIX e XX secolo, in rapporto ai mutamenti della società, e in riferimento particolare alla realtà francese. Leggendolo trovo conferma dell’influenza di Jackson sul lavoro di Freud, ma scopro che ha anche profondamente condizionato l’ambiente psichiatrico e le sue teorizzazioni. Riporto alcuni passi: “La dottrina dominante [in ambito psichiatrico] nel periodo tra le due guerre e negli anni ’40 è quella della gerarchia delle funzioni.(p.85) La psichiatria è ormai pronta a disfarsi della concezione anatomica a beneficio di una concezione neurobiologica: le lesioni lasciano il posto alle funzioni. La malattia mentale è la risultante di un dissesto funzionale che investe l’affettività e non di una lesione, ha a che fare con una dinamica e non con una statica. (p.84) Il suo modello di riferimento risale al 1884, allorchè il neurologo britannico John Hughlings Jackson afferma che le malattie mentali sono forme di dissoluzione dei centri superiori del cervello. Tali centri, costituitisi per ultimi nell’evoluzione della specie umana, sono più complessi, più volitivi e meno organizzati dei centri nervosi inferiori, che sono a loro volta più semplici, più automatici, meglio organizzati. La disorganizzazione dei centri superiori abolisce il controllo su quelli inferiori, che, svincolati, producono quegli automatismi mentali di cui la nascente psicologia scientifica – siamo alla fine del XIX secolo – si nutre. Sono automatismi di due tipi: positivo, i cui sintomi sono il delirio e l’allucinazione, e negativo, o deficitario, per usare un termine seriore, i cui sintomi sono l’abulia, la rigidità motoria, ecc. Jackson si colloca in una prospettiva globale, funzionale, evoluzionistica, antitetica a quella lesionale. La malattia mentale gli appare come una regressione, un ‘ritorno a una condizione ancestrale, infantile’ (nota 1). La teoria di Jackson sarà un punto di riferimento capitale, che permetterà di abbandonare l’idea che i disturbi mentali siano entità cliniche precise – in una parola, malattie. La psichiatria francese sarà, nel suo complesso, jacksoniana (Pierre Janet, Henri Claude, Henri Ey, Paul Guiraud, Jean Delay, ecc.) e ne trarrà i presupposti della propria interpretazione dell’inconscio…. ‘Ogni diminuzione delle forze psichiche superiori comporta una liberazione delle energie designate coi termini di inconscio o istinto. La follia libera le tendenze animali’, scrive da buon jacksoniano, Ey….”(pp.85-86) (nota 1) Charles Ferè in un opera del 1899 citata da Sulloway, Freud, biologo della psiche, Feltrinelli,1982, p.259. Sulloway precisa che Freud possedeva l’opera di Ferè e conosceva evidentemente molto bene, come tutti i neurologi del suo tempo, la dottrina di Jackson.

07 - Carlo Grigioni

28/01/2010 - 18:54

Ancora sulla persistenza delle strutture. Vorrei esprimere alcune idee che sono alla base del mio intervento del 25/10/09, l’evoluzione che si è verificata nella concezione che ho dell’argomento e un piccolo contributo. Una struttura psichica è un sistema organizzato e permanente di risposte agli stimoli. Sta nel concetto stesso la caratteristica della stabilità, della permanenza: una struttura è per definizione persistente. Tuttavia ciascuna struttura è sottoposta ad una evoluzione durante lo sviluppo. Le strutture iniziali siano esse strutture percettive, mnemoniche, cognitive o affettive si modificano lentamente, pena il disadattamento o il disequilibrio, fino ad assumere caratteristiche talmente diverse dalle strutture di origine da risultare nuove strutture. Cosa succede alle strutture d’origine? Queste persistono. Come si verifica questa persistenza? Non entrano in conflitto con quelle nuove? J. Sandler nell’articolo “Persistenza nelle funzioni e nello sviluppo psicologico” del 1965(1)afferma che la formazione di una nuova struttura è accompagnata dalla formazione di un’altra struttura con la funzione di inibire la precedente; la struttura vecchia persiste ma è inibita. Sin dalle prime righe del capitolo citato afferma:” …nessuna struttura psicologica va mai persa”, “ …strutture evolutivamente più tardive svolgono anche la funzione di inibire strutture precoci …” Per illustrare questa funzione inibitoria delle nuove strutture verso le vecchie Sandler e il coautore W.G. Joffe fanno alcuni esempi. Uno di essi deriva da una comune esperienza personale degli autori. Entrambi si trasferirono dal Sud Africa alla Gran Bretagna e dovettero apprendere il nome della moneta di 3 Penny che è diverso nei due Paesi. Anche quando credevano che l’uso della nuova parola fosse diventato automatico, notavano che in momenti di tensione quella vecchia appariva nuovamente(2). Un altro esempio è ricavato dai risultati degli studi sulla microgenesi dei percetti e dei pensieri. Da tali studi si arriva alla conclusione che “…sembra esistere un perfetto parallelismo fra microsviluppo della percezione nell’”hic et nunc” e sviluppo ontogenetico della percezione stessa. Assistiamo cioè a quella che si potrebbe chiamare una “ricapitolazione microgenetica” dello sviluppo ontogenetico”(3). Questi esempi dimostrano in modo chiaro il pensiero di J. Sandler circa la persistenza e l’inibizione enunciato poco sopra. È con queste concezioni che ho partecipato al convegno dello scorso ottobre: “Persistenza e trasformazioni nel processo evolutivo: teoria e clinica”. Mi aspettavo un esempio clinico di come una struttura (ad esempio una struttura difensiva) nel corso della psicoterapia venisse superata e inibita da una nuova più adatta e di come in particolari situazioni di ansia potesse riapparire. La mia aspettativa è stata delusa; ciò ha creato la motivazione del mio primo intervento su questo “focus”. Tuttavia nell’esprimere allora quelle osservazioni che qui ho cercato di riesporre in modo più articolato, avevo l’impressione che esse fossero basate su un’impostazione teorica un po’ troppo artificiosa e meccanica. Questa impressione divenne una convinzione dopo il commento che il dott. Monteverde mi espresse circa il mio intervento. Mi rimaneva però l’interrogativo su come intendere, nel campo affettivo, l’inibizione delle strutture sorpassate visto che il modello suggerito dagli esempi di Sandler non era praticabile. La cosa mi suscitava una certa inquietudine. A questo punto è stata risolutiva (almeno per il momento) l’opinione espressa dal dott. Coen nel gruppo del mercoledì a proposito appunto della persistenza delle strutture e della loro inibizione. Il dott. Coen avanza l’idea che il concetto di inibizione delle strutture non sia molto adatto per inquadrare concettualmente ciò che avviene nel nostro apparato psichico; più adatto sarebbe pensare ad una “orchestrazione” delle strutture. Nessuna di esse viene inibita, tutte sono presenti nell’apparato ma si affacciano alla coscienza in modo più o meno intenso a seconda del controllo che esercita l’Io. Si possono considerare come gli elementi di un’orchestra che, ubbidienti ad un direttore, ammutoliscono, suonano in sordina o con tutta la loro tonalità a seconda delle evenienze. (Spero di non travisare il pensiero del dott. Coen). J. Sandler, dopo aver esposto gli esempi sopra riportati scrive: “ Non è un gran passo applicare il concetto di microgenesi a tutte le risposte psichiche e comportamentali e a tutte le forme di stimolo e quindi anche a quelle rappresentazioni che sono stimolate e riattivate sotto la pressione delle pulsioni”(4). Probabilmente questa generalizzazione è da rivedere. Forse sarebbe utile ipotizzare una gradualità nella forza inibitoria. Nel campo delle strutture percettive, mnemoniche, in alcune di quelle cognitive la necessità della realtà impone delle strutture inibitorie rigorose, automatiche; in altri campi cognitivi e senz’altro in quello affettivo l’inibizione può essere più blanda, intermittente, “orchestrabile”. La ricerca in psicoanalisi, vol. 2, cap. 5 ivi pag. 89 ivi pag. 90 ivi pag. 90

06 - Mauro Boyer

10/12/2009 - 21:12

Leggendo l’ intervento del dottor Tadiello, mi è tornata alla mente una situazione clinica che forse può illustrare un aspetto del tema sintonico/distonico. Si tratta di una paziente di poco più di trent’anni, sposata, con due bambini piccoli, un lavoro a tempo pieno: tutto ciò la impegna e la affatica molto. E’ venuta da me circa due anni fa per sintomi ansiosi e depressivi, ma soprattutto perchè le sue relazioni, sia in famiglia che sul lavoro, erano difficili e insoddisfacenti, e questo la faceva sentire infelice e scontenta. Nel corso del tempo le cose sono via via migliorate. In particolare, si è attenuato e fatto meno frequente un suo modo di reagire caratteristico nelle situazioni di tensione e conflitto con le altre persone, la rivendicatività, manifestata spesso con tono arrogante e di superiorità. Pur avendone parlato spesso, tuttavia, non si è compreso molto del significato e della funzione di tutto ciò e la paziente ha continuato a considerare le sue reazioni del tutto giustificate dall’ egoismo e dalla prepotenza della gente. In una delle ultime sedute la paziente parla a lungo di quanto accaduto sul lavoro negli ultimi giorni, facendola soffrire ed arrabbiare, poi di un incontro in cui si è sentita poco considerata, infine emerge un doloroso ricordo infantile dello stesso tipo. Le dico che mi sembra che abbia assunto, nel raccontare, un tono via via più rivendicativo. Si mostra sorpresa, dice di non essersene accorta, ma che forse è vero. Rimane un po’ in silenzio. A mia volta sono sorpreso che la paziente, sempre molto attenta, non si sia accorta del tono con cui parlava. Di lì a poco la seduta finisce. Nella seduta successiva dice di sentirsi un po’ triste, che aveva pensato anche di non venire in seduta, oggi. Poi aggiunge che ha ripensato a quanto detto la volta precedente e che le dispiace, prova dolore nel vedersi come una persona rivendicativa, arrogante e presuntuosa. Nel tempo restante della seduta cominciamo a parlare della possibilità che questo modo di reagire alle situazioni frustranti l’ abbia sempre protetta dal dolore e dall’ umiliazione, facendola sentire forte e attiva, superiore agli altri, salvaguardandone l’ autostima e in definitiva il sentimento di sicurezza. In un certo senso si può dire che un dispositivo difensivo, una modalità adattativa, quasi un tratto di carattere, ha provocato dispiacere, in questo senso è diventato distonico alla coscienza. Questo ha permesso di parlarne come di un problema e, forse, di avviare la ricerca di una modalità adattativa più soddisfacente.

05 - Giuseppe Tadiello

27/11/2009 - 21:30

L’intervento del collega Carlo Grigioni, in particolare dove si parla del “mettere in luce la struttura distonica del paziente”, mi ha sollecitato alcune riflessioni riguardo ai termini sintonico/distonico. Utilizziamo molto spesso nel nostro linguaggio espressioni tipo: “quel sintomo è diventato distonico per il paziente”, oppure quell’”adattamento è sintonico all’Io” è così via. Mi pare però che il significato che diamo quando li usiamo non sia del tutto chiaro. Per esempio: sintonico rispetto a cosa? A cosa ci riferiamo? Oppure distonico per chi? Per l’Io, per la persona, per la coscienza? La questione è ovviamente complessa, per cui ho pensato di iniziare ad affrontarla da un versante storico, andando a vedere se Freud usò queste espressioni, e con quale significato. E’ solo un aspetto, ma potrebbe aprirci ad altre successive riflessioni attorno alla questione. Nel volume 8 delle Opere di Freud (Boringhieri) a pag. 507 compare una nota del curatore: “Ichgerecht: in sintonia con l’Io o egosintonica. Il termine è stato introdotto da Freud nell’Introduzione al narcisismo (1914) p.469”. Infatti se andiamo al testo appena citato troviamo, nell’Avvertenza editoriale che lo introduce (pag.442, vol.7), conferma di questo: “un altro concetto qui introdotto è quello di comportamento in sintonia con l’Io, o egosintonico”. ( In realtà da una più attenta ricerca già un anno prima Freud parla nel lavoro La disposizione alla nevrosi ossessiva (vol.7, p.244) “delle pulsioni in sintonia con l’Io”). Prima di addentrarci nel significato di questo termine “ichgerecht”, vorrei fare un passo indietro. Nella prima fase del suo lavoro, tra il 1890 e il 1900, Freud pensa che il conflitto sia determinato dall’incompatibilità di una impressione/rappresentazione con l’Io. L’Io, in questa iniziale formulazione, viene sostanzialmente considerato come campo di coscienza (vedi Laplanche, p.279). “Si tratta, generalmente, di impressioni [pensieri, fantasie, propositi…] alle quali viene negata una scarica, sia perché i malati ne respingono la liquidazione per paura di penosi conflitti spirituali, sia perché (così come avviene per le impressioni sessuali) essa è vietata dal pudore o dai rapporti sociali” (Freud, Abbozzi per la “comunicazione preliminare”, 1892, vol.1, p.146). “Potei stabilire un carattere generale di queste rappresentazioni: erano tutte di natura penosa, idonee a provocare gli affetti della vergogna, del rimprovero, del dolore psichico, della menomazione, e nell’insieme tali che si preferirebbe non averle vissute e che si vorrebbe piuttosto dimenticare” (Freud, Studi sull’isteria, Per la psicoterapia dell’isteria, 1892-95, vol.1, p.406) Così, dice Freud, l’Io (come coscienza) sente queste impressioni/rappresentazioni, che generano un sentimento di dispiacere, di dolore, inconciliabili con i suoi ideali, con le sue aspirazioni spirituali, con le norme sociali, cioè con “l’orientamento delle rappresentazioni già riunite nell’Io” (ivi 406) . Sorge allora il conflitto: la rappresentazione, che suscita dispiacere, viene allontanata e rimossa, senza necessariamente “un’intenzione cosciente” (vedi nota a p.272, vol.1). Infine,il lavoro con il pz. consiste nell’”allargare la coscienza”, (Freud, Studi sull’isteria, p.267) riportando il contenuto rimosso nel campo della coscienza in modo che la persona possa familiarizzarsi con esso (ivi 434), cioè fare i conti con un contenuto “manifestamente inconciliabile con l’immagine di sé che il paziente intende mantenere”(Laplanche 280). “Il procedimento è faticoso e sottrae molto tempo al medico, presuppone in lui un grande interesse per fatti psicologici, ma anche un interessamento personale per il malato”.(Freud, p. 403) Torniamo a ichgerecht e al testo Introduzione al narcisismo(1914) dove compare per la prima volta. Sono passati quasi vent’anni. Nel terzo paragrafo Freud dice: “Abbiamo imparato che i moti pulsionali libidici incorrono nel destino di una rimozione patogena quando vengono in conflitto con le rappresentazioni della civiltà e dell’etica proprie del soggetto… Abbiamo detto che la rimozione procede dall’Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l’Io ha di sé…. Possiamo dire che un individuo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale… La formazione di un ideale sarebbe da parte dell’Io la condizione della rimozione.” (p.463-64) Qui mi pare che Freud parli dell’Io intendendo il “sentimento di sé”, distinguendo poi al suo interno l’ideale dell’Io (o del sé) che “costituisce un modello a cui il soggetto cerca di conformarsi” (Laplanche, p.225), per poter così ristabilire la “perfezione narcisistica della sua infanzia” (Freud, p.464). E arriviamo al passo che a noi interessa: “le relazioni esistenti fra il sentimento di sé e l’erotismo… si possono esprimere nella formula seguente: bisogna distinguere il caso in cui gli investimenti amorosi sono in sintonia con l’Io da quello in cui al contrario essi hanno subito una rimozione. Nel primo caso (di impiego egosintonico della libido), l’atto di amare è considerato alla stregua di ogni altra attività dell’Io.“ (Freud, , p.469) La parola ichgerecht significa: “ciò che è giusto per l’Io, ciò che è in sintonia con l’Io”, e in questo caso sembra far riferimento a vissuti di adeguatezza e di giustezza al buon sentimento di sé. Siamo in sostanza nella stessa linea dei primi anni, dove si parlava di contenuti inconciliabili con l’immagine di sé, o in altri termini, in contrasto con l’”orientamento delle rappresentazioni già riunite nell’Io”.

04 - Laura Vigaṇ

21/11/2009 - 9:16

Alcune considerazioni sul caso proposto al Convegno Le due sedute proposte dalla Terapeuta sono le ultime due della settimana ( il paziente fa cinque sedute la settimana da dieci anni e fra poco più di un anno la T.cesserà la sua attività). Mi voglio riferire solo alle prime battute della prima seduta : il P. parla con tono avvilito, sconfortato del suo lavoro, dice che gli sembra di aver sbagliato degli investimenti economici e si chiede per quale motivo seguita questa carriera dato che alla fine non si sente motivato più di tanto. Quando la T. fa notare al paziente la discrepanza tra questo modo pessimistico di vedere il suo lavoro e quello di qualche giorno prima quando, entusiasta degli investimenti fatti, pensava di assumere un nuovo collaboratore , il Paziente si sente attaccato. La mia osservazione – dice la T. - non fu la benvenuta. Infatti , il P. a seguito dell’intervento della T., racconta di come un collega lo avesse umiliato dicendogli che parlava senza cognizione di causa e che in queste situazioni sentiva la voce paterna che gli diceva di fare, ma lui non sapeva cosa fare ( anche da bambino quando il padre gli suggeriva come problem solving di pensare, lui non capiva cosa volesse dire “pensare”) . Mi pare che il materiale clinico sia sufficiente per vedere la qualità del dialogo con la T. declinato sul paradigma della relazione col padre : la T è un oggetto “sopra di lui” , lo può mortificare con la sua superiorità, ma è pur sempre una guida anche se lo lascia disorientato, inquieto. L’ansia di risultare deludente quando non ce la fa , la paura di non contare niente e di essere messo da parte senza attenuanti , attivata anche dalla separazione del fine settimana che si avvicina che ha sullo sfondo la chiusura della terapia che si appresta a subire dalla sua T., fa scattare nel P. la necessità di rifarsi narcisisticamente accendendo la relazione terapeutica e le sue fantasie con un’atmosfera sadomasochista piena di desideri di rivalsa e di sopraffazione ( spostati sulla persona della collaboratrice che voleva assumere perchè conflittuali). Per proteggersi dall’ansia di essere scoperto nei suoi punti deboli, da bambino amava giocare a fare il capo o fare il genio usando il diniego a piene mani mettendo gli altri sotto di lui a vario titolo, ora il P. è animato da eccitanti fantasie di piegare la donna al suo volere, costringerla a stare con lui, imporsi e farsi valere in tutti i modi , magari giocando carte false . Infatti aveva presentato alla collaboratrice un quadro della sua attività più allettante di quanto non lo fosse in realtà , e in terapia teneva la T. in superficie , per tenere le distanze di sicurezza e non essere visto così com’è. Per il P. la relazione sadomasochista è una struttura portante che gli permette di rifarsi narcisisticamente nel momento dell’angoscia di sentirsi scoperto quando non ce la fa, così si sente un po’ come suo padre che metteva sotto le donne, e si mantiene vicino all’immagine ideale del suo sé lontano dal rischio di cadute depressive ; gli permette di tenere a bada le sue eccitazioni rabbiose ( la seduta successiva, fa aspettare la T. trenta minuti ) quando non sente la protezione che cerca riuscendo così ad allontanare lo spauracchio della perdita di controllo della follia ( ricordiamo la sorella); gli garantisce un dialogo fitto con l’oggetto che gli fa molta compagnia in un’atmosfera di fine terapia . Come stare fuori dalla relazione sadomasochista che il P. cerca di attualizzare in un modo così marcato? Se rispettiamo la struttura difensiva del P. e ci ricordiamo della scissione a cui ricorre non riuscendo a sopportare la tensione tra sentimenti opposti (così come un giorno tiene la moglie in palmo di mano, il giorno dopo ne parla con fastidio, ugualmente col lavoro passa dall’entusiasmo all’abbattimento ), potremmo fare un intervento identificatorio dicendogli che è duro essere esposti ad una altalena di sentimenti di soddisfazione e poi di scoraggiamento che gli fan venire la voglia di piantar e lì tutto, che mettere insieme andamenti così opposti fa sentire frastornati, e quando è così faticoso ci si sente bisognosi di comprensione e di incoraggiamento. Mi aspetto però che questo particolare paziente si ritiri nel suo clima “superficiale”, dirotti la T. lontano dai punti caldi, tenendola in stand-by. Se dovessimo sollecitare in lui l’atteggiamento della ricerca comune per capire che cosa veramente gli crea quell’umore nero, stimolando l’alleanza terapeutica, è molto possibile che il paziente si senta accerchiato dal pericolo di ridurre le distanze di sicurezza e diventi , come capita spesso in seduta, impenetrabile. Un Paziente difficile, stuzzica la fantasia non solo la pazienza! Laura Viganò

03 - Mauro Boyer

14/11/2009 - 10:15

Una domanda che nasce da un’osservazione del dottor Monteverde, durante il Convegno, intesa a mettere in evidenza “il desiderio, ravvisabile dal primo incontro con la terapeuta, di una relazione con una persona buona, interessata, emotivamente coinvolta, in grado di fornire calore, sostegno e intimità”. Il dottor Coen, nel suo intervento di risposta al dott. Grigioni e al dott. Zamorani, riconosce tale desiderio come espressione di un terzo, più profondo livello di funzionamento del paziente. Può questo desiderio essere considerato come una delle forze motivazionali sempre presenti in ogni richiesta di psicoterapia, accanto ed in conflitto con l’ urgenza di ristabilire, attraverso una relazione di ruolo più consueta e consolidata, un minimo livello del sentimento di sicurezza, minacciato da un avvenimento qualsiasi della vita? Si può in altre parole pensare che in ogni relazione terapeutica si riattivi, a livelli diversi di intensità ovviamente, un conflitto fondamentale tra quel desiderio “profondo”, “antico”, che preme per attualizzarsi, e desideri o modalità relazionali [strutture] più “evolute” e più “funzionali” nell’ assicurare sentimenti di sicurezza, che si oppongono ad ogni tentativo di realizzazione della relazione desiderata, perché per qualche motivo è minacciosa? Non è in fondo quel desiderio profondo ad alimentare la speranza del paziente (e del terapeuta) che le cose possano andare diversamente da come sono sempre andate? Quanto detto, insieme al riconoscimento della funzione di protezione e di sicurezza svolta da modalità relazionali che pure provocano sofferenze e difficoltà di ogni tipo (nel nostro caso quella sadomasochistica, o quella che costringe il paziente ad essere sempre all’ altezza degli ideali paterni o dei propri introietti), mi suggerisce un’ipotesi relativamente ad una delle caratteristiche principali del caso clinico, quel suo procedere a zig zag, quel passo indietro che sembra seguire ogni progresso. A me sembra che la terapeuta, ogni volta che assume il ruolo di persona buona, interessata, emotivamente coinvolta, in grado di fornire calore, sostegno e intimità, inevitabilmente stimola e favorisce l’ attivazione regressiva del desiderio, quindi del conflitto e conseguentemente dell’ ansia e delle difese. Ora, probabilmente questa dinamica, con questo continuo ricorso a modalità relazionali sperimentate, si instaura molto presto nella relazione terapeutica e ostacola il lavoro volto ad individuare le principali strutture relazionali presenti nel paziente, a comprenderne il significato difensivo e adattivo, e soprattutto ostacola il progressivo conseguimento da parte del paziente di un certo grado di tolleranza al dolore che gli deriva dalla piena consapevolezza dell’esistenza e dell’ intensità di quel desiderio. E credo che un certo grado di tolleranza al dolore sia indispensabile, insieme alla conoscenza delle proprie modalità principali di funzionamento, per permettere la ricerca di nuove, più soddisfacenti soluzioni ai conflitti.

02 - paolo zamorani

03/11/2009 - 12:4

Innanzitutto buon giorno. Ringrazio la Dr.ssa Sandler , il Dott Milton , il Dr Coen per le belle ore passate insieme al convegno sulla "persistenza" . In seconda battuta chiedo se posso inserirmi anche se purtroppo per ora i miei contatti con voi sono solo annuali in occasione dei convegni . Questo vostro forum aperto mi sarebbe particolarmente gradito per "sentirci" e per partecipare all' atmosfera sempre ricca in più sensi (anche affettivo) della Scuola che ho un tempo frequentato. Volevo qui dare alcune mie considerazioni. Devo dire che mi "ronza" particolarmente nelle orecchie la domanda della Collega (non ne so il nome) sul "lutto rispetto alla fimosi". Mi ci ritrovo , nel senso che , forse sbaglio, ma la "regione psichica" (e forse le ragioni psichiche) delle cosiddettte perversioni non è poi tanto distante , forse è addirittura confinante , con la "regione" della depressione : nelle perversioni è in gioco un tentativo fantasmatico di riparazione della castrazione , nella depressione tutto ruota attorno alla perdita oggettuale , a "riavere indietro" qualcosa che si è perso (mi riferisco al penultimo convegno) . In fondo una "riparazione" (perversioni) non è poi tanto lontano da un tentativo di fronteggiare (anche negandola) una perdita oggettuale . Dipende dalla prospettiva in cui ci mettiamo. Mi rendo conto di avere sollevato un problema che può andare in mille direzioni . Ricordo solo che nel paziente del convegno il "locus minoris resistentiae" dell' integrità corporea non era solo il pene con la sua fimosi ma che prima lo erano stati i piedi (piatti) . Lo spostamento non era a caso. Grazie Paolo

01 - Carlo Grigioni

25/10/2009 - 18:36

L’interessante caso clinico presentato ieri dalla Signora Sandler mette bene in evidenza quante difficoltà si devono superare, quanto tempo è necessario, quanta pazienza bisogna esercitare per mettere in luce la struttura distonica del paziente. Caratteristiche che denotano l’insistenza, la tenacia, la costanza, la durevolezza di una struttura e la quantità di lavoro necessaria per avanzare nel processo terapeutico. I termini “insistenza”, “tenacia”, “costanza”, “durevolezza” sono alcune delle accezioni con cui comunemente viene inteso il termine “persistenza”. Noi però lo usiamo con un significato più specifico: intendiamo una struttura che, pur esistendo nell’apparato psichico, non funziona, c’è ma non si vede. Una ideale esemplificazione clinica della concezione di persistenza delle strutture dovrebbe a mio parere seguire il seguente modello. - Delineare una struttura distonica in un paziente. - Mostrare il superamento di detta struttura attraverso la creazione di un’altra che sovrasta la prima e la inibisce. - Mostrare che la nuova struttura, più sintonica, in situazioni di particolare stress o disagio psichico cede, non riesce a inibire la precedente e questa riappare, dimostrando così la sua persistenza.

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